Il Sole 24 Ore, chiedendosi se la crisi finanziaria "muterà in radice" oppure no il nostro mondo, apre un dibattito sul suo futuro. Guido Tabellini nel saggio d'apertura s'interroga sulle cause che hanno innescato la crisi e indaga le riforme considerate necessarie perché essa non si ripeta. Le tre questioni (le cause della crisi, la sua natura e il che fare per uscirne) sono effettivamente cruciali e interrogano non solo l'economia, ma direttamente la politica e le scienze umane. Il fatto che nell'apertura del dibattito Tabellini dia una risposta che tende a circoscrivere il campo d'azione della crisi e quindi delle reazioni da adottare per uscirne, non riduce la portata dei quesiti ai quali credo si possa (e si debba) dare risposte assai diverse da quelle prospettate.
Questa crisi non è la manifestazione di un'ordinaria turbolenza quanto piuttosto un terremoto imprevisto dai governi e dai principali attori dell'economia e dalle conseguenze ancora largamente imprevedibili. La sua espansione nelle diverse sfere in cui è organizzata la società e la sua estensione nel mondo la rendono imparagonabile a tutte quelle che si sono succedute negli ultimi decenni. La crisi è sempre una transizione dolorosa da una condizione a un'altra da essa diversa e, quando si manifesta nell'economia, sempre ne propone un processo di riorganizzazione e di ristrutturazione. Ma la crisi del 2008 non ha nulla che faccia pensare solo a un avvallamento temporaneo terminato il quale si tornerà ai livelli previsti. Il suo carattere strutturale ha fatto sì che, esplosa nella dimensione finanziaria, essa ha immediatamente e direttamente investito, con un'imponente massa d'urto, l'economia e la società in tutte le sue articolazioni.
Il suo carattere globale è stato messo in evidenza da come la crisi ha investito il mondo intero. Né si può trascurare che la crisi si manifesta, anche nei paesi a più alto tasso di sviluppo, all'interno di una coesione sociale già largamente compromessa. Su di essa irrompono ora le conseguenze della crisi. La diffusione senza precedenti del lavoro precario compie un salto con la messa a rischio, per una parte rilevante della popolazione lavorativa, dello stesso posto di lavoro. Il contesto sociale e politico, del resto, ha visto assai indebolite tutte le difese sociali. In una strisciante crisi di civiltà, la perdita di futuro e lo smarrimento di senso fanno dell'incertezza il suo tratto più caratteristico. La paura prevale sulla speranza. La solidarietà sociale è spezzata dalla produzione di meccanismi d'esclusione e dalla crescita di un individualismo mercantilistico alimentato anche dall'eclissi della politica. Parlare in queste condizioni, alla stessa stregua, della crisi come rischio e come opportunità diventa tutt'altro che innocente.
Per trasformare questa crisi in opportunità ci vorrebbero tante cose che oggi non ci sono, a partire dalla politica. La prima dovrebbe essere l'acquisizione della natura profonda, di società della crisi. Guido Rossi ha descrittivamente parlato di una crisi del capitalismo finanziario globalizzato. Si potrebbe sostenere che le cause della crisi sono le medesime che ne avevano determinato il successo: la finanziarizzazione pervasiva, l'unificazione di mercati non governati, la crescita delle disuguaglianze quale volano dello sviluppo. Lucio Caracciolo ha definito gli Usa un "impero a credito". La contraddizione, insita nella definizione, è diventata un potente fattore di crisi ma, prima, ha costituito la possibilità d'immettere, anche attraverso la spesa pubblica in disavanzo, nell'economia, potenti dosi di denaro decisive per quella spinta all'innovazione tecnico-scientifica, alla sua applicazione e all'aumento della produttività.
Senza la crescente finanziarizzazione dell'economia non ci sarebbe stata la rivoluzione digitale. La relazione che si è venuta realizzando tra le economie occidentali e la crescita imponente di quelle asiatiche, a partire dalla Cina, non avrebbe avuto lo stesso svolgimento: uno svolgimento così imponente da configurare già nella crisi la transizione, uno spostamento del baricentro dello sviluppo a Oriente (la Cinamerica). Se verso l'esterno gli Usa hanno funzionato come un impero a credito, sul mercato interno hanno realizzato una soluzione del problema della domanda interna non meno gravida di contraddizioni, con lo stesso complice consenso delle altre aree economiche del mondo.
Un brillante economista come Riccardo Bellofiore ha parlato, a questo proposito, della creazione d'una figura economico-sociale particolarmente rilevante a quel fine, quella del consumatore indebitato. Quando Ford progettò il modello T (l'annuncio della produzione di serie per il consumo di massa) considerò la necessità di alti salari. L'economia della globalizzazione ha preteso sistematicamente di farne a meno, sostituendoli con l'indebitamento privato. È impossibile non vederne il rapporto con la creazione della bolla e con l'esplodere della crisi finanziaria. La teoria di Minsky sull'instabilità si prende così una rivincita sull'oscuramento a cui è stata condannata e rivela la prevedibilità della crisi. È la conferma, la possibilità di prevederla analizzando il funzionamento di questa economia, che si tratta di una crisi sistemica.
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